La dottoressa Corrias ci spiega come interagire con i bambini in caso di lutto o malattia

Sono Barbara Corrias, psicologa e psicoterapeuta con formazione specifica in psiconcologia. Da circa tredici anni mi occupo di pazienti, famiglie ed équipe che affrontano ogni giorno la malattia e la morte accompagnandoli fino al processo di elaborazione del lutto.

La psiconcologia si situa come interfaccia da un lato dell’oncologia dall’altro della psicologia e della psichiatria ed analizza in un’ottica transculturale due significative dimensioni legate al cancro: l’impatto psicologico e sociale della malattia sul paziente, la sua famiglia e l’equipe curante; il ruolo dei fattori psicologici e comportamentali nella prevenzione, nella diagnosi precoce e nella cura delle neoplasie. È un ambito di studio recente (il primo manuale di riferimento è stato pubblicato nel 1989), la cui complessità rende necessario lo sviluppo costante di un corpo di conoscenze e di una pratica specifica che implicano l’uso di particolari metodi di osservazione, di analisi e di raccolta dei dati. La psiconcologia considera l’interdisciplinarietà e l’integrazione disciplinare come requisiti indispensabili per l’attuazione di un sistema di cura che tenga conto della globalità dei bisogni del malato; inoltre promuove e realizza, nel rispetto dell’autonomia culturale e professionale di ciascuna disciplina coinvolta, un approccio di tipo psicosociale al
paziente. Richiede quindi per la sua applicazione l’intervento di professionisti, psicologi e psichiatri, appositamente formati in questo settore.

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Si può dire ai bambini che un loro parente o conoscente è molto malato o che sta per morire o che è morto?

La cultura occidentale odierna appare in evidente difficoltà di fronte all’esperienza della malattia, della sofferenza e ancora di più di fronte alla morte.
Parlare di morte ai bambini non è facile e non c’è un modo giusto, ma evitare di parlarne è un modo per togliere l’opportunità di crescita a un bambino, l’opportunità di vivere quell’emozione, di gestirla e di poterla riutilizzare, negare significa rendere i bambini più fragili e privarli di strumenti emotivi e cognitivi che si conquistano attraverso queste esperienze.
Ritengo importante comunicare al bambino la realtà delle cose, i bambini hanno bisogno di sapere, di conoscere: perché ci vedono tristi, perché gli altri sono tristi, perché gli equilibri in casa sono cambiati, ecc.
I bambini comprendono molto bene che cosa sta accadendo, lo sentono, lo percepiscono, lo leggono dai volti, dalle conversazioni, dai non detti; sono interessati al tema della morte e hanno bisogno di avvicinarsi tramite una “guida” sicura.
E’ importante usare un linguaggio semplice, parole che consolino, che riscaldino ma che non neghino la realtà.
Non si può evitare di far soffrire il bambino, ma l’adulto può trasmettergli di avere la capacità di contenere quel dolore, di essere pronto ad accoglierlo nei suoi spazi (la cameretta, il parco..), utilizzando i suoi canali di comunicazione per poterci entrare al meglio (la fiaba, il gioco); confermando al bambino che gli starà vicino e lo aiuterà ad affrontare quello che sta succedendo, che è libero di esprimere come si sente, che
può fare qualsiasi domanda.
Inoltre parlare con il bambino nella fase finale della malattia è fondamentale per informarlo su quanto sta accadendo, naturalmente calibrando il tutto all’età del bambino e alla sua capacità di comprensione.
Anche per un bambino sapere di essere stato presente nel difficile momento dell’accostarsi alla morte di qualcuno che hanno amato è una consapevolezza importante: poter esserci e poter salutare per l’ultima volta permette al bambino di farsi soggetto attivo, di inserire nella sua rappresentazione un’azione
intrapresa e compiuta, non subita, raccontando questi vissuti con il suo canale privilegiato del corpo, del gioco o del disegno.

C’è’ una differenza della comprensione in base all’età del bambino?

Le tappe evolutive del concetto di morte che la ricerca psicologica ha individuato possono essere riassunte schematicamente in questo modo: fino a circa 3 anni il bambino il bambino è convinto che la morte sia un evento reversibile e non definitivo di cui tende a non comprendere le cause; tra i 4 e i 6 anni comprende
che la morte è irreversibile, ma la causa ancora può essere riferita più a una magia piuttosto che a una causa naturale o biologica; tra i 6 e i 9 comprende che la morte è una cessazione irreversibile delle funzioni vitali, che è universale e soprattutto può riguardare anche lui stesso.

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Cosa le chiedono o genitori che hanno figli piccoli e che si trovano a vivere un’esperienza di malattia grave o morte?

Sono molteplici le domande che l’esperienza di malattia grave e la morte portano fuori e a me arriva l’impotenza e la disperazione che spesso annebbia e toglie lucidità anche per poter formulare domande, per questo è necessario accogliere come risorsa e opportunità ogni interrogativo, anziché assistere spesso a uno spostamento fisico del bambino in questo momento verso una casa in cui non si sta vivendo l’esperienza dolorosa. Riassumo le domande che mi arrivano proprio con le parole assenza/presenza perché sono le più frequenti: è opportuno lasciare il bambino in casa durante la malattia del proprio caro? E’ opportuno portare i
bambini al funerale di un parente e/o al cimitero?
Non ci sono regole fisse, occorre capire come ci si è comportati prima con questo bambino; se al bambino non è stato detto niente rispetto alla malattia, non è logico portarlo al funerale, se invece al bambino è stato detto qualcosa e gli è stata data la possibilità di vivere la malattia, è abbastanza logico portarlo al funerale. In ogni caso bisognerebbe sempre far partecipare i bambini, naturalmente non contro la loro
volontà, alle situazioni critiche di malattia, morte, funerale perché questo, come abbiamo visto, è un momento importante per la loro crescita.
Assenza o presenza di verità, “come posso dire ciò che è accaduto?” “quali parole devo utilizzare?”, Posso dirgli che il papà è fuori per lavoro?”: è fondamentale per poter rispondere a queste domande, fare un passo indietro e porre una domanda a noi stessi: In che modo voglio educare mio figlio alla morte? (es. impostazione religiosa, laica, scientifica della morte), all’interno della propria impostazione c’è anche la possibilità di prendersi tempo, di rispondere piano piano, di dire non lo so, non è possibile fornire una riposta definitiva, Tu adulto puoi non avere una risposta, ma ciò non significa che la domanda del bambino non è stata accolta, si entra ugualmente nel desiderio del bambino di sapere e si cerca di comunicagli che
quel desiderio è importante seguirlo, è importante farsi domande e poterle cambiare nel tempo.
Il lutto non è un momento, non è un evento, ma un processo che avviene nel tempo e che si riaffronta più volte nel corso della vita, ad ogni nuova perdita e separazione… e non si finisce mai di farsi le domande sulla
morte.

Da cosa nascono le paure dell’adulto rispetto al trattare questi temi coi bambini?

Principalmente emerge il bisogno dell’adulto di proteggere il bambino dal dolore, dalla sofferenza, considerandola causa di un possibile trauma per il bambino, per questo si tende a rispondere spostando l’attenzione del bambino su altro o rimandando una verità.
Per poter parlare e stare dentro la sofferenza del bambino è fondamentale che l’adulto abbia già risposto ai suoi interrogativi rispetto al tema dell’impotenza che la morte più di altri sollecita in noi.
Spesso infatti protegge se stesso (dicendo di proteggere i bambini) ma incrina il rapporto di fiducia che è fondamentale ai fini di una relazione di qualità.
Seguire lo sguardo, i movimenti puliti del bambino coinvolgerà l’adulto in un viaggio interiore che porterà entrambi a vivere la relazione con chi non c’è più in una maniera più profonda e completa.

 

Attraversato questo dolore
Sazio di quella sofferenza
Ti ho potuto lasciar scivolare
la mano che ti tratteneva a me si è aperta
tu sei VOLATO dentro di me.

 

BARBARA CORRIAS

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